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ITINERARI - L'OCCIDENTE - L'ETÀ DELL'IMPERIALISMO

L'ASCESA DEGLI STATI UNITI

Agli anni che vanno dal 1871 al 1914, e cioè dalla fine della guerra francoprussiana allo scoppio della Prima guerra mondiale, è stato dato il nome di «Età dell'imperialismo». Quegli anni hanno rappresentato uno dei più lunghi periodi di pace goduti dall'Europa, ma sono stati anche l'epoca in cui le potenze europee hanno fatto a gara nell'accaparrarsi le parti del mondo ancora disponibili e in cui le relazioni internazionali (dapprima tra le potenze occidentali e il resto del mondo, poi tra le stesse potenze occidentali) sono state sempre più nettamente improntate all'ostentazione e all'uso della forza.
Il fenomeno che offre la chiave più importante per capire le vicende di quest'epoca è probabilmente il profondo mutamento subìto dal capitalismo industriale. Alla prima fase del capitalismo, caratterizzata dall'idea che la concorrenza tra le imprese fosse la migliore molla dello sviluppo, era subentrata una fase di accentuata concentrazione monopolistica. La concorrenza aveva perso (se mai lo aveva avuto) il significato di civile e stimolante gara verso traguardi sempre più avanzati e aveva assunto i tratti sinistri di una lotta per la sopravvivenza condotta senza esclusione di colpi. Poiché in questa lotta erano per lo più le imprese e gli aggregati economici più piccoli quelli che soccombevano, la concorrenza aveva finito col rovesciarsi nel suo opposto: il monopolio.
Le aziende avevano preso a concentrarsi raggruppando in un unico ciclo le diverse fasi di lavorazione di un prodotto. Al tempo stesso i grandi produttori degli stessi tipi di merci avevano preso ad associarsi e a stringere accordi (trust o «cartelli») per spartirsi il mercato ed evitare così guerre commerciali che potevano risultare rovinose per tutti. Tra imprese private e governi erano diventate sempre più frequenti alleanze e intese: la protezione dello Stato era ormai un decisivo fattore di successo nella competizione economica e sempre più spesso lo Stato interveniva direttamente a sostenere con finanziamenti e commesse l'attività delle grandi società industriali (specialmente nei settori di interesse strategico, come l'industria siderurgica, chimica e degli armamenti) e di quelle commerciali, bancarie, di navigazione, ecc.
L'espansione coloniale dei Paesi europei e la loro pretesa di spartirsi più o meno amichevolmente il resto del mondo è stato un aspetto di questa realtà e in particolare di questo intreccio di interessi che si era venuto a creare tra iniziative private e politica dei governi. In un certo senso, il vecchio continente non era più in grado di contenere le energie sprigionate dalla sua economia. Il capitale monopolistico esigeva sempre nuove occasioni di investimento, nuove fonti di materie prime, nuovi sbocchi commerciali. Le conquiste coloniali dovevano servire soprattutto a questo. Alcuni Paesi, poi, tra cui l'Italia, videro in esse anche la possibilità di dare sfogo ad una popolazione esuberante (la popolazione era appunto una delle risorse il cui sviluppo sembrava ormai sfuggire ad ogni controllo), e cioè un modo (per altro dimostratosi illusorio) di affrontare il disagio sociale derivante dai processi di modernizzazione dell'economia.
Altrettanto e forse più importanti dell'espansione e del consolidamento degli imperi coloniali europei sono stati i processi di riequilibrio avvenuti tra Otto e Novecento all'interno del mondo occidentale: mentre l'Europa raggiungeva il massimo della sua potenza, il peso economico e politico dell'Occidente scivolava silenziosamente verso l'altra sponda dell'Atlantico. La manifestazione più vistosa di questo spostamento fu il trasferimento di un'enorme massa di lavoratori dal vecchio al nuovo continente. Il flusso migratorio verso le Americhe assunse negli ultimi decenni dell'Ottocento i caratteri di una vera e propria alluvione, quasi che, dopo l'esplosione demografica che si era verificata in Europa tra Sette e Ottocento, fossero crollate le dighe che fino a quel momento avevano regolato i movimenti di popolazione oltre oceano. Le Americhe, che avevano tradizionalmente fame di manodopera, sono state i primi, i più naturali e i più importanti serbatoi in cui si è riversato l'eccesso di popolazione creato in Europa dallo sviluppo industriale. Delle Americhe, però, fu solo l'America anglosassone a conoscere un forte sviluppo economico, a cui corrispose, per gli Stati Uniti, un'equivalente crescita di peso politico. Ancora alla metà dell'Ottocento gli Stati Uniti erano relativamente arretrati rispetto a molti Paesi europei. Già nel 1910, però, avevano raggiunto il primo posto tra le potenze industriali del mondo e al termine della Prima guerra mondiale erano la principale potenza anche nel campo finanziario. Un solo esempio: nel 1860 gli Stati Uniti producevano meno di 1 milione di tonnellate di ferro grezzo; sessant'anni più tardi la produzione era salita a 36 milioni. Nel 1890 la produzione degli Stati Uniti era superiore a quella dell'Inghilterra; nel 1900 a quelle dell'Inghilterra e della Germania messe assieme.
Orgogliosi delle loro tradizioni e della loro estraneità alle beghe della complicata politica europea, impegnati in primo luogo nella colonizzazione del loro stesso territorio, gli Stati Uniti hanno continuato per lungo tempo a disinteressarsi del resto del mondo. Verso la fine del secolo questo atteggiamento, a cui si dà comunemente il nome di «isolazionismo» cominciò a mutare. Da Paese periferico e semiselvaggio gli Stati Uniti erano divenuti ormai una grande potenza. Sospinti dalla crescente potenza economica, dall'aumento dei loro investimenti all'estero, da un inizio di saturazione del mercato interno gli Stati Uniti si gettarono con foga nella gara imperialistica per la conquista di nuovi mercati. L'Età dell'imperialismo è stata anche l'età dell'ascesa degli Stati Uniti al ruolo di grande potenza mondiale.
La prima occasione per un grande balzo della produzione industriale negli Stati Uniti era stata rappresentata proprio dalla devastante Guerra di secessione: il processo di industrializzazione era avanzato sotto l'urgenza delle necessità belli che. Ma fu soprattutto all'indomani della guerra che l'economia degli Stati Uniti assunse quel ritmo di sviluppo che in mezzo secolo ne avrebbe fatto il Paese più potente del mondo. La disponibilità di manodopera a basso prezzo dovuta all'intensa immigrazione e la continua espansione del mercato interno dovuta al vertiginoso aumento della popolazione (che passò dai 31 milioni del 1860 ai 100 milioni del 1914) costituirono i principali fattori della crescita economica americana.
Come già in Europa, anche negli Stati Uniti la crescita economica fu accompagnata da un grande sviluppo delle ferrovie. Dopo la Guerra di secessione il Governo federale e quelli dei diversi Stati avevano incoraggiato in ogni modo (in particolare con generose concessioni di terre) la costruzione di nuove linee. Gli alti profitti realizzati dalle compagnie ferroviarie spinsero un gran numero di uomini d'affari a concentrare in questo settore i loro investimenti e la rete delle strade ferrate continuò a crescere celermente. Ne derivò una sorta di seconda conquista del West che comportò una generale trasformazione del modo di vita della frontiera. Le regioni comprese tra il fiume Missouri e il Pacifico, prima scarsamente abitate e relativamente isolate dall'Est evoluto, vennero intensamente colonizzate e videro crescere i traffici commerciali in misura più che proporzionale all'aumento della popolazione. I nuovi coloni erano spesso gli stessi manovali impiegati nella costruzione delle ferrovie, che al termine del loro ingaggio ricevevano come liquidazione dalle società per le quali avevano lavorato un appezzamento di terra. Stazioni o nodi ferroviari del West, come Kansas City, che prima della Guerra di secessione erano semplici villaggi, divennero in pochi decenni delle vere e proprie metropoli. Le aree prossime alle linee ferroviarie moltiplicarono in pochi anni il loro valore il che determinò una serie di improvvisi arricchimenti e alimentò una furibonda speculazione immobiliare.
Gli agricoltori, in presenza di un efficiente sistema di comunicazioni, potevano ora produrre per mercati lontani. Per loro, però si annunciavano tempi difficili. Agricoltura e industria si sviluppavano con ritmi diversi. Mentre l'industria americana si espandeva con inesauribile vigore, l'agricoltura procedeva con affanno. Le ragioni di scambio tra prodotti agricoli e manufatti industriali peggiorarono progressivamente (vale a dire che per ottenere gli stessi manufatti occorrevano quantità crescenti di prodotti agricoli). La competizione tra le imprese agricole divenne più dura e quelle che non erano in grado di adottare tecniche produttive avanzate (in primo luogo i piccoli e medi agricoltori) si trovarono presto in difficoltà. La vita della fattoria perse il fascino che aveva avuto in passato e il mito dell'agricoltore indipendente, che aveva avuto tanta parte nell'ideologia democratica degli Stati Uniti, prese a deperire rapidamente.

INDIANI: LA SOLUZIONE FINALE

Le ultime guerre indiane, nella seconda metà dell'Ottocento, videro il massacro e la fine della libertà dei popoli delle praterie. Tra gli episodi più noti dell'ultima fase della colonizzazione bianca vi è nel 1864 la strage operata da un reparto dell'esercito di vecchi, donne e bambini di un villaggio a Sand Creek, del tutto indifeso perché gli uomini erano a caccia, e la distruzione, avvenuta pochi anni dopo, di un altro villaggio sul fiume Washita ordinata dal colonnello Custer. Nel 1874 la febbre dell'oro investì il Sud Dakota e davanti al rifiuto della gente di Nuvola Rossa, di Cavallo Pazzo e di Toro Seduto di vendere la loro terra ai bianchi, fu nuovamente impiegato l'esercito. L'annientamento del reparto dell'ormai generale Custer a Little Big Horn fu l'ultima vittoria dei Pellirosse sui bianchi. Quando anche Geronimo, capo di una piccola banda di Apaches, venne catturato e imprigionato, per i pochi Indiani ancora liberi venne il momento della deportazione nelle riserve.
Geronimo, l'ultimo capo Apache, in una foto del 1905


IL CROGIOLO AMERICANO

Melting pot significa alla lettera «crogiolo» ed è un'espressione che negli Stati Uniti è entrata nel linguaggio comune nel primo Novecento ad indicare il «crogiolo di razze» di immigrati europei concentrati nelle città americane. Il primo a usarlo in questo senso fu Israel Zangwill, autore di una dramma intitolato appunto The Melting Pot (1908). L'assimilazione di immigrati naturalmente non era un fatto nuovo per l'America, dove anzi da sempre l'immigrazione era stata esplicitamente teorizzata come fonte indispensabile di manodopera, soprattutto qualificata. Già nel 1870, ad esempio, circa un terzo degli operai americani erano nati fuori degli Stati Uniti e provenivano in gran parte dall'Europa occidentale e settentrionale (Inglesi, Tedeschi, Irlandesi).
Tuttavia fu solo a partire dagli anni Novanta dell'Ottocento, con la fine della corsa all'Ovest e con la nascita dei primi consistenti embrioni di industrie di massa concentrate attorno ai mercati urbani, che si pose agli imprenditori il problema di assicurarsi un flusso costante e massificato di manodopera generica, disponibile e «docile», tale insomma da non porre quelle rivendicazioni di maggior salario e di maggior potere che gli operai specializzati nativi dell'America o comunque di più vecchia immigrazione cominciavano ad avanzare con insistenza. Questa esigenza del padronato americano trovò perfetta rispondenza nelle tristissime condizioni economiche e sociali delle masse contadine dell'Europa centrale e meridionale che, ulteriormente immiserite dalle crisi del 1893-94 e del 1907, avevano nell'emigrazione oltre oceano l'unica via di sopravvivenza.
Attraverso la propaganda di agenzie di viaggio, mediante annunci e bandi con offerte di lavoro pubblicati dai consolati americani nei Paesi europei e poi mediante il canale informale delle lettere con cui gli immigrati invitavano i parenti rimasti in Europa a raggiungerli in America si innescò un fenomeno migratorio di proporzioni gigantesche: solo tra il 1886 e il 1920 (il periodo di flusso più intenso) approdarono sulle banchine dei porti statunitensi 20 milioni e mezzo di nuovi immigrati. Tanti che nel 1909 il 60 per cento della forza lavoro nei ventun settori industriali principali era costituito da stranieri e in certi casi in una sola fabbrica si potevano udire contemporaneamente decine di lingue e dialetti diversi.
È facile immaginare quali problemi sociali e culturali comportasse questa ondata immigratoria, non solo per le dimensioni del fenomeno, ma anche e soprattutto perché gli immigrati di questa ondata avevano tradizioni, costumi, modi di vita ben diversi dagli immigrati precedenti e risultavano assai difficilmente integrabili all'antico ceppo anglosassone. Nonostante tutto però molti imprenditori, intellettuali e uomini politici erano convinti della possibilità di integrarli rapidamente, da un lato attraverso un'esperienza di lavoro massificato comune, dall'altro mediante opportune attività di acculturazione svolte da istituzioni pubbliche e private e talvolta dalle stesse aziende che li impiegavano.
Il termine melting pot esprimeva appunto questa speranza, affidata a corsi di lingua inglese e ad attività di socializzazione e di animazione organizzati per gli immigrati da aziende come la Ford e da associazioni di beneficenza come la Young Men's Christian Association. Il tutto nel tentativo si strappare gli immigrati alle rispettive comunità etniche che essi nel frattempo avevano ricostruito puntualmente nelle città americane e che spesso costituivano, con la loro fedeltà a costumi e tradizioni di ispirazione prevalentemente contadina, un serio intoppo al loro inserimento nell'ambiente di lavoro: si pensi al conflitto tra i modi tradizionali di vita degli immigrati e le esigenze delle nuove forme di organizzazione della produzione come, ad esempio, la catena di montaggio, che si affidavano alla capacità degli operai di assicurare una continuità alla loro presenza sul lavoro e di adeguarsi in modo efficiente ai nuovi ritmi lavorativi.
La filosofia e le politiche del melting pot, almeno nel breve periodo, fallirono clamorosamente. In realtà gli immigrati non solo reagirono ai tentativi di acculturazione forzata legandosi ancora di più alle proprie comunità, ma fecero di queste stesse comunità etniche altrettante roccaforti per un nuovo ciclo di lotte rivendicative che interessò i settori produttivi più disparati, dal tessile, al siderurgico, alle confezioni e alle miniere e che portò gli imprenditori a premere presso il Governo federale perché venissero adottate misure restrittive e selettive dell'immigrazione. Promulgate poi effettivamente all'inizio degli anni Venti, tali leggi fissavano una quota massima complessiva annua di nuovi immigrati, ponendo un deciso freno al fenomeno.
Nel frattempo, negli anni a cavallo della guerra (1917-1919), la provenienza di molti immigrati dalle terre degli Imperi Centrali (l'Impero tedesco e quello austro-ungarico) e la loro militanza in organizzazioni della sinistra fornirono il pretesto alle autorità federali e statali per fare degli stranieri il principale bersaglio di una campagna che, all'insegna di un patriottismo esasperato, si risolse in una vera e propria «caccia alle streghe» antisocialista e antiradicale, di cui Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono le vittime più illustri.
Passata l'isteria americanista e bloccata l'immigrazione con le leggi di cui si è detto, il processo di integrazione degli immigrati si svolse in maniera naturale e fisiologica negli anni Trenta e Quaranta, via via che i figli degli immigrati, grazie soprattutto ad una società resa tendenzialmente omogenea dai mass media, assorbivano gli elementi essenziali della nuova cultura di massa americana. Le varie comunità etniche, le «Piccole Italie» o le «Piccole Polonie» sparse a macchia d'olio per il Paese, sopravvivevano a se stesse, più che altro come residui folcloristici e sedi di clientele politiche.
La loro sopravvivenza ha tuttavia fornito l'occasione per lo sviluppo di una nuova ideologia tesa a superare il concetto di melting pot e ad affermare il carattere al tempo stesso integrato ma anche pienamente pluralistico della società americana. Secondo questa teoria, detta appunto «pluralistica», la società americana è un sistema fondato sul consenso rispetto ad alcuni valori fondamentali, in cui tuttavia la piena integrazione dei vari gruppi (etnici, sociali, di interesse) nella comunità nazionale non solo non ha distrutto le peculiari connotazioni delle singole comunità etniche, ma anzi le ha esaltate, garantendo la piena e sostanziale tutela delle minoranze. Un'ideologia che in realtà doveva essere clamorosamente smentita negli anni Cinquanta e Sessanta dalla discriminazione razziale ed etnica nei confronti dei neri e di altre minoranze.

POLITICA DEL DOLLARO E POLITICA DELLE CANNONIERE

Dopo il crollo degli imperi spagnolo e portoghese i Paesi più avanzati dell'Europa (l'Inghilterra in primo luogo) e gli Stati Uniti stabilirono un pesante controllo sull'economia e sulla vita politica dell'America latina. Le imprese commerciali, le banche, le ferrovie, i battelli a vapore, le miniere funzionavano prevalentemente con capitali stranieri, specialmente inglesi. Si calcola che su un capitale di 100 miliardi di franchi oro impiegato in tutto il mondo la Gran Bretagna ne avesse ben 20 miliardi nell'America latina. La massiccia presenza dei capitali stranieri non determinò un'assoluta mancanza di sviluppo, che fu sollecitato anche dalla forte immigrazione: in Argentina, per esempio, tra il 1880 e il 1914 immigrarono più di 4 milioni e mezzo di persone, tra cui moltissimi Italiani. Si trattò però di uno sviluppo fortemente squilibrato: gli investimenti inglesi o americani si dirigevano infatti soprattutto verso il settore agricolo e minerario accentuando (anziché correggere, come sarebbe stato necessario) uno sviluppo monocolturale dell'economia di queste regioni, vale a dire la sua dipendenza da un solo tipo di produzione (caffè in Brasile, allevamento e cereali in Argentina, ecc.).
La supremazia straniera accentuò anche, all'interno dei singoli Paesi, lo strapotere di ristrette oligarchie costituite dai grandi proprietari terrieri (in primo luogo la Chiesa), dai banchieri e dai grandi commercianti, i quali controllavano il commercio con l'estero. Era appunto in questo settore che la subordinazione dell'economia latino-americana si manifestava nel modo più chiaro. Le esportazioni, rappresentate esclusivamente da materie prime e generi agricoli, servivano a pagare le importazioni dai Paesi industrializzati, ma lo scambio non avveniva affatto su piede di parità: i Paesi industrializzati, infatti, essendo i soli possibili acquirenti, erano in grado di stabilire i prezzi che volevano per i prodotti latino-americani, mentre vendevano i propri a prezzi di mercato. Col tempo questa ineguaglianza nello scambio si aggravò, nel senso che per avere gli stessi quantitativi di manufatti industriali l'America latina dovette cedere quantità crescenti dei propri prodotti. Così, il sistema di libero scambio che aveva sostituito, con l'indipendenza, il monopolio commerciale della Spagna e del Portogallo finì col risolversi ugualmente in un continuo deflusso di ricchezze verso l'Europa e gli Stati Uniti.
Alla dipendenza economica faceva riscontro una sostanziale dipendenza politica. Le ambasciate delle grandi potenze nelle capitali latino-americane funzionavano spesso come tramite di pressioni, insinuazioni, indebite ingerenze. Quando il sistema dell'insinuazione non era sufficiente, veniva messa in atto quella che fu detta, dal suo principale strumento di persuasione (la minaccia di far bombardare dalla flotta le città costiere), la «politica delle cannoniere», usata ampiamente anche in altri continenti. In America latina finì presto per assumere un ruolo preminente l'azione degli Stati Uniti. Nella prima metà dell'Ottocento il presidente Monroe aveva formulato il principio «l'America agli Americani», intendendo che l'intero continente dovesse essere sottratto al tradizionale dominio europeo; un po' alla volta quel principio fu interpretato nel senso che l'America costituiva la naturale area d'influenza degli Stati Uniti.
A differenza delle potenze coloniali europee gli Stati Uniti non puntarono soltanto e neppure principalmente a impadronirsi di nuovi territori. La loro azione si ispirò soprattutto alla cosiddetta «diplomazia del dollaro», che consisteva nella penetrazione economica mediante massicci investimenti di capitale e poi nella difesa di tali investimenti con tutti i mezzi della diplomazia, dai trattati diseguali (che sancivano cioè la dipendenza dei governi locali dal Governo nord-americano) agli interventi militari. L'imperialismo americano però, assieme ai dollari esportava (o credeva di esportare) anche ideali e in primo luogo i valori della democrazia. Si trattava insomma, almeno nelle intenzioni, di una sorta di estensione fuori degli Stati Uniti di quella lunga espansione della società democratica americana che aveva caratterizzato la conquista e la colonizzazione del West. Così, le iniziative imperialistiche degli Stati Uniti si coprivano di motivazioni ideali e spesso si presentavano addirittura come interventi in sostegno delle lotte di liberazione dei popoli coloniali contro i dominatori europei.
È quel che accadde nel 1898 nella guerra di Cuba. L'isola, che gli Stati Uniti avevano cercato di acquistare dalla Spagna per ragioni strategiche e nella quale avevano notevoli interessi economici (soprattutto nel settore dello zucchero e in quello delle miniere) si era già ribellata al Governo spagnolo, con l'aiuto americano, nel 1868-78. Quando, nel 1895, i Cubani si ribellarono nuovamente, gli Stati Uniti videro l'occasione di affermare definitivamente la loro supremazia nei Caraibi. Le crudeli repressioni attuate dalle autorità spagnole furono più che sufficienti ad eccitare lo sdegno dell'opinione pubblica americana e la misteriosa esplosione di una nave americana nel porto dell'Habana fornì il pretesto per l'intervento. La Spagna fu sconfitta in pochi mesi e nel dicembre, con il trattato di Parigi, gli Stati Uniti restarono a Cuba, formalmente indipendente, come garanti dell'ordine pubblico. La completa subordinazione economica e politica di Cuba verso gli Stati Uniti fu poi sancita addirittura dalla costituzione dell'isola del 1901. Nello stesso trattato di Parigi gli Stati Uniti strapparono alla Spagna Portorico e, nel Pacifico (dove si stava concentrando il grosso degli interessi strategici ed economici dell'imperialismo americano), l'arcipelago delle Filippine. Qui il movimento indipendentista che aveva combattuto a fianco degli Americani contro il dominio spagnolo, vistosi tradito, continuò per alcuni anni contro i nuovi dominatori la guerriglia che aveva iniziato contro i vecchi.

RAGIONE DI SCAMBIO E SCAMBIO INEGUALE

Si dice «ragione di scambio» il rapporto tra l'indice dei prezzi di un certo gruppo di merci e l'indice dei prezzi di un altro gruppo di merci che si scambia con il primo. Se in un determinato Paese i prezzi delle merci importate aumentano del 10 per cento e quelli delle merci esportate aumentano del 20 per cento la ragione di scambio tra importazioni ed esportazioni si modifica in meglio, perché con la stessa quantità di merci esportate si può ottenere una maggiore quantità di merci di importazione. Se i prezzi dei prodotti agricoli aumentano poco e quelli dei prodotti industriali aumentano molto, le ragioni di scambio peggiorano per l'agricoltore e migliorano per l'industriale. L'espressione «scambio ineguale» si adopera per indicare la particolare condizione che si stabilisce quando le ragioni di scambio sono stabilmente sfavorevoli a uno dei due partner commerciali: è stato il caso, in passato, degli scambi tra la metropoli e le sue colonie ed è ora il caso degli scambi tra i Paesi industrializzati e i Paesi sottosviluppati. Colonie e Paesi sottosviluppati hanno sempre esportato materie prime e prodotti agricoli e importato manufatti. Salvo temporanei aumenti (per esempio in relazione allo scoppio di guerre, che producono improvvise e forti impennate della domanda) i prezzi delle materie prime si sono mantenuti costantemente bassi rispetto a quelli dei prodotti industriali, e le ragioni di scambio sono andate progressivamente peggiorando per i Paesi in via di sviluppo. Del resto, anche forti aumenti nel prezzo delle materie prime si riflettono prima o poi sui prezzi dei prodotti industriali, sicché da soli risultano insufficienti, almeno in linea generale, a correggere la condizione di inferiorità dei Paesi sottosviluppati rispetto a quelli industrializzati.

IL MIRACOLO GIAPPONESE

Fino alla metà dell'Ottocento il Giappone era rimasto precluso agli occidentali, eccezion fatta (almeno in parte) per gli Olandesi, che godevano di antichi privilegi. Nel 1853 il Governo degli Stati Uniti inviò una missione per proporre ufficialmente al Giappone l'apertura di normali relazioni commerciali. Non era la prima missione del genere da parte delle potenze occidentali e non fu l'ultima: l'anno successivo gli stessi Americani tornarono nella baia di Edo (ora Tokyo) con un numero di navi sufficiente a persuadere i dirigenti giapponesi che era venuto il momento di decidersi. I «barbari» erano ormai alle porte.
La classe dirigente giapponese, costituita da quelli che, con qualche forzatura, ma in analogia con le istituzioni politiche europee, possiamo chiamare i grandi signori feudali, si domandava se per caso non fosse venuto il momento di aprirle queste porte e di far dilagare i barbari in Giappone, oppure se occorresse sbarrarle ancora di più per resistere alle loro pressioni. Il Paese si divise e mentre si infittivano da parte occidentale le dimostrazioni di forza (secondo i modi della consueta «politica delle cannoniere»), si giunse a una vera e propria guerra civile. Alla fine ebbero il sopravvento le forze che intendevano modernizzare l'economia giapponese, ma appunto come mezzo per salvaguardare l'indipendenza nazionale.
È dal 1868 che si fa iniziare la storia del Giappone contemporaneo. La riforma realizzata a partire da quell'anno ha davvero pochi precedenti o paralleli in fatto di radicalità, rapidità di esecuzione e successo. Dal punto di vista politico si espresse nella restituzione dell'effettiva autorità suprema all'imperatore, il cui potere, sopraffatto dall'autorità dei signori feudali, era da tempo diventato poco più che nominale. Più in generale, però, significò l'eliminazione della struttura tradizionale del potere. Nelle funzioni politiche e amministrative i vecchi signori feudali furono gradualmente sostituiti da funzionari governativi. In più essi dovettero rinunciare, sia pure dietro lauti risarcimenti, al monopolio delle terre, che finirono nelle mani di un gran numero di piccoli proprietari. Fu istituito il servizio militare obbligatorio e le attività militari cessarono di essere prerogativa della casta dei samurai, che fornì invece un buon numero di quadri alla nuova burocrazia statale. Le imposte, che prima gravavano collettivamente sui villaggi, divennero personali e invece che dai feudatari furono riscosse dagli esattori del Governo. Infine, una nuova costituzione istituì un Parlamento su modello occidentale, ma dotato di poteri limitati: al centro del sistema politico restava l'imperatore e il Governo rispondeva a lui.
Modernizzazione significava soprattutto industrializzazione. Nel 1870 venne creato il ministero dell'industria e fu avviato un intenso programma di sviluppo industriale, specialmente nei settori minerario, siderurgico, degli armamenti, della navigazione, delle ferrovie. Il Governo con le sue iniziative in questi settori puntò non a sostituirsi ai privati ma ad offrire loro esperienze e modelli da seguire. Nel giro di appena un decennio le attività impiantate dal Governo parvero abbastanza solide da poter essere cedute ai privati. Questi ultimi furono incoraggiati ad assumersi i rischi della gestione delle aziende industriali dai prezzi bassissimi, molto inferiori agli investimenti originari, a cui furono offerte in vendita.
L'intervento dello Stato non si fermò tuttavia a questo punto. L'amministrazione dello Stato conservò una decisiva funzione di promozione e di controllo tanto nell'industria quanto nella finanza e i rapporti fra gli uomini d'affari e i funzionari statali restarono molto stretti. Anche questo favorì una forte concentrazione di capitali e la formazione di grandi imperi industriali e finanziari (in giapponese zaibatsu) simili a quelli che andavano sviluppandosi in altri Paesi capitalistici, come la Germania e gli Stati Uniti.
Il Giappone è il solo Paese non occidentale che si è tempestivamente industrializzato. Perché proprio il Giappone? Perché non l'India, la Cina, l'Indonesia, che in definitiva, a metà Ottocento, presentavano un grado di sviluppo economico, tecnico e culturale non dissimile da quello del Giappone? La peculiarità del Giappone stava forse tutta nell'esser rimasto sino a quel momento il solo Paese dell'Asia totalmente esente da qualsiasi forma di soggezione politica o economica nei confronti dell'Occidente. Probabilmente la ragione del successo del Giappone sta proprio qui, vale a dire nel suo prolungato isolamento dal mercato internazionale, che ne aveva salvaguardato le forze produttive sottraendole alla concorrenza occidentale. In più il Giappone si è avviato sulla strada dell'industrializzazione poco prima che cambiassero radicalmente le condizioni del «decollo industriale», quando le tecniche produttive erano ancora relativamente semplici da imitare e gli investimenti necessari non avevano ancora raggiunto i livelli proibitivi dei decenni successivi.
Le mentalità non si trasformano altrettanto rapidamente quanto le strutture economiche. Il Giappone moderno fu sin dall'inizio un miscuglio di vecchio e nuovo, ma con caratteri rigorosamente suoi. La nuova classe dirigente era dominata dal mito dell'efficienza, ma anche dall'ideologia nazionalistica e dal culto dei valori tradizionali: disciplina, gerarchia, obbedienza all'imperatore. Più che un freno allo sviluppo questo miscuglio di modernità e di tradizione costituì un fattore di successo. Per esempio l'ideologia tradizionale, che esaltava negli umili lo spirito di sottomissione e la fedeltà ai padroni, serviva egregiamente a rendere docile il nuovo proletariato, e a fargli accettare le durissime condizioni di sfruttamento necessarie per garantire una rapida accumulazione di capitali.
Ben presto gli indirizzi di politica interna ed estera del Giappone industrializzato assunsero i connotati tipici dell'autoritarismo, del militarismo e dell'imperialismo. L'espansionismo giapponese si orientò in primo luogo verso la Corea e Taiwan, che appartenevano alla grande area cinese: messa rapidamente fuori gioco la Cina nella guerra del 1894-1895, il Giappone osò dieci anni più tardi sfidare una delle grandi potenze europee, la Russia, il cui Governo considerava la Corea stessa, la Manciuria e la Cina settentrionale come regioni di proprio preminente interesse. Ancora una volta il Giappone vinse, anzi stravinse.
La guerra russo-giapponese del 1904-1905 ha diversi titoli per figurare come un importante capitolo nella storia dell'Occidente. Innanzi tutto fu una sorta di prova generale della Prima guerra mondiale per l'inaudita potenza delle armi (in particolare dell'artiglieria) impiegate per la prima volta sul campo, per le nuove tecniche di combattimento che ne discendevano, per i problemi logistici e organizzativi, anch'essi in gran parte inediti, relativi all'approvvigionamento e alla tenuta in efficienza di un esercito moderno. In secondo luogo fu l'occasione che rivelò al mondo la fragilità (o piuttosto il fradiciume) delle strutture politiche e amministrative del «gigante russo» (come veniva comunemente chiamato), l'ultimo Stato assoluto del continente europeo: nel 1905 la Russia fu sconvolta da una rivoluzione, che fu anch'essa una sorta di prova generale dell'altra e più terribile rivoluzione che sarebbe scoppiata nel 1917. Infine, e soprattutto, era la prima, strepitosa dimostrazione che l'uomo bianco poteva essere battuto e che l'Europa non era necessariamente la più forte.
L'Età dell'imperialismo, in verità, era sempre meno l'età del predominio europeo sul mondo: se l'ascesa degli Stati Uniti aveva spostato verso il lontano Ovest il baricentro politico ed economico dell'Occidente, l'ascesa del Giappone sembrava spostare fuori dell'Occidente stesso il baricentro del mondo.
Lo stato maggiore giapponese dopo la resa dei Russi


LO STATO BORGHESE

Sconfitte le ipotesi democratiche e repubblicane del Quarantotto, la borghesia liberale europea era arrivata lo stesso, in un modo o nell'altro, a esercitare un ruolo dirigente. Era la classe che con i suoi capitalisti, i suoi imprenditori, i suoi tecnici, stava guidando la seconda e più innovativa rivoluzione industriale: quella dell'acciaio, della chimica, dell'elettricità, del motore a scoppio, della produzione in serie. Politicamente aveva perso la sua carica rivoluzionaria e aveva rinunciato, almeno in parte, alle sue «utopie», la libertà, l'uguaglianza, la fraternità, che sarebbero state ereditate dai radicali, dagli anarchici, da molte correnti del movimento socialista. Nonostante i ripiegamenti, i compromessi e le alleanze con le vecchie forze conservatrici (monarchia, aristocrazia, Chiesa), l'avvento al potere della borghesia aveva dato vita ad un nuovo tipo di Stato, che è quello a cui ancora oggi, bene o male, facciamo riferimento.
Lo Stato borghese è fondato sul principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Vi sono, naturalmente, ineguaglianze sociali ed economiche (c'è una bella differenza, per esempio, tra padroni e operai, tra ricchi e poveri, tra letterati e ignoranti, ecc.) e la dinamica stessa dell'economia capitalistica porta ad esasperare le differenze sociali e produce continuamente intollerabili ingiustizie a danno dei più deboli. Si tratta però di ineguaglianze di fatto, non di diritto. Le leggi dello Stato non riconoscono e non difendono quelle differenze: il povero può diventare ricco, l'operaio è liberissimo di diventare padrone (se ci riesce), l'ignorante è addirittura incoraggiato a istruirsi e a diventare uomo di lettere. Lo Stato borghese, insomma, è espressione di una società «classista», ma non di una «società di ordini»: le sue leggi non riconoscono, almeno in linea di massima, privilegi, e senza privilegi non ci sono ordini privilegiati. Per lo Stato borghese non ci sono più preti o nobili, a cui riservare un trattamento speciale: ci sono solo «cittadini». Vi può essere, naturalmente, il cittadino che fa il prete, come c'è il cittadino-commerciante o il cittadino-avvocato, ma tutti hanno gli stessi diritti, tutti cioè sono uguali di fronte alla legge.
Lo Stato borghese è uno Stato costituzionale. Come abbiamo visto, anche le monarchie assolute avevano una qualche forma di costituzione, rappresentata, se non altro, dalle norme che regolavano la successione al trono o da analoghe regole attinenti al funzionamento delle istituzioni monarchiche. Ma queste norme costituzionali, che erano per lo più affidate alla consuetudine e non alla legge scritta, si limitavano a definire i modi dell'attribuzione dell'autorità sovrana al principe: non definivano quelli dell'esercizio della sovranità. In senso proprio, invece, si dice «costituzionale» quello Stato in cui la legge prevede, appunto, le forme in cui la sovranità deve essere esercitata e stabilisce dei limiti precisi al potere statale (ossia riconosce l'esistenza di sfere di attività puramente private, nelle quali l'autorità pubblica non può e non deve interferire).
Il moderno Stato costituzionale può avere indifferentemente forma monarchica o repubblicana, ma si contrappone allo Stato assoluto in quanto in questo erano i re a governare, in quello sono le leggi; gli si contrappone, poi, in quanto è «garantista», vale a dire che riconosce esplicitamente ai cittadini una serie di diritti e di libertà (tra cui la libertà di pensiero, di parola, di religione, di stampa, di riunione e di associazione ecc.) e li difende dallo strapotere dello Stato stesso con una serie di garanzie e di strumenti istituzionali, e per esempio, adottando il principio della divisione dei poteri, già formulato nel Settecento da Montesquieu e raccolto da tutta la successiva tradizione liberale.
Lo Stato borghese liberale non è più, come quello di antico regime, patrimonio del principe che ne poteva disporre a suo piacimento: è invece, almeno teoricamente, creazione ed espressione di tutto il popolo, o, come anche si dice, della «Nazione». La sovranità popolare si esprime nel principio secondo il quale i governanti e i funzionari statali sono responsabili di fronte al popolo delle loro azioni; in concreto essa si esercita attraverso l'elezione da parte dei cittadini di assemblee rappresentative (Parlamenti) incaricate di fare le leggi e di controllare in un modo o nell'altro l'operato del Governo e degli organi esecutivi dello Stato.
Lo Stato borghese è uno Stato burocratico-accentratore. Indipendentemente dal fatto che il suo apparato amministrativo risulti più o meno centralizzato (si tratta di una scelta dettata dalle specifiche condizioni dei diversi Paesi), la sovranità dello Stato si esercita in modo uniforme su tutto il territorio e in base agli stessi princìpi: come non esistono più privilegi sociali, così non esistono più nello Stato borghese privilegi territoriali o isole di immunità (salvo eccezioni, s'intende: l'extraterritorialità riconosciuta alle sedi delle rappresentanze diplomatiche straniere è una di queste). L'applicazione dei criteri di uniformità territoriale propri dello Stato burocratico-accentratore ha riguardato in primo luogo le monete, i pesi, le misure e ha comportato l'eliminazione graduale degli ostacoli alla circolazione degli uomini e delle merci (dazi interni, discriminazioni fiscali, vincoli sulla proprietà della terra ecc.) di cui erano invece ingombri gli Stati di antico regime.
Lo Stato borghese ha così favorito la costruzione di mercati nazionali unificati, verso i quali spingeva anche la crescita della società industriale, bisognosa di grandi spazi economici.
Un'altra importante caratteristica dello Stato borghese liberale è quella di essere uno Stato laico. Laico significa che lo Stato non si identifica con una religione o con una Chiesa. Lo Stato e la Chiesa sono separati, le loro attività si svolgono in sfere diverse. In questo senso il laicismo dello Stato borghese (che potremmo riassumere nella formula, attribuita a Cavour, «libera Chiesa in libero Stato») si distingue nettamente dal vecchio giurisdizionalismo degli Stati assoluti, che, presumendo che lo Stato dovesse abbracciare e difendere una particolare fede religiosa, presumeva di conseguenza che la sua autorità dovesse esercitarsi anche nel campo della religione. Il principio della laicità dello Stato vuol dire invece (come già avevano sostenuto a metà Seicento i livellatori inglesi) che la religione è una faccenda strettamente privata in cui il potere statale non deve interferire in alcun modo, né per reprimere né per promuovere alcunché.
I princìpi dello Stato borghese liberale si sono affermati gradualmente, parzialmente e in forme diverse nei diversi Paesi. Spesso sono stati limitati, trasformati, stravolti, sospesi o aboliti a seconda delle circostanze, dell'evoluzione economica e sociale, dei rapporti di forza tra le varie classi sociali e soprattutto a seconda del grado maggiore o minore di pericolosità che i ceti dirigenti (e in primo luogo la borghesia capitalistica) attribuivano ai movimenti di opposizione o di protesta delle classi popolari.
Lo Stato borghese liberale quale è emerso nella seconda metà del secolo scorso non poteva non mostrare le caratteristiche della classe che gli aveva dato vita. E a ben vedere, il «cittadino» che esso opponeva in linea di principio al «suddito» del vecchio Stato assoluto, in linea di fatto era soprattutto il «cittadino proprietario»: lo stanno a dimostrare, tra l'altro, le limitazioni censitarie del diritto elettorale, quasi universalmente adottate dagli Stati borghesi dell'Ottocento e scomparse solo molto lentamente nel nostro secolo.

LA SECONDA INTERNAZIONALE

L'Età dell'imperialismo si era aperta nel 1871 con la sanguinosa repressione della Comune di Parigi, e cioè con la liquidazione del primo esperimento di governo compiuto (si può ben dire «a furor di popolo») dai gruppi socialisti e libertari che avevano o cercavano i loro seguaci nel proletariato industriale e nelle classi popolari urbane. Per il movimento operaio (un'espressione che useremo d'ora in poi per indicare molto genericamente tutti questi gruppi, comunque organizzati, e le classi sociali a cui facevano riferimento) la sconfitta della Comune fu la dimostrazione dell'immaturità di un'ipotesi rivoluzionaria che puntasse alla conquista immediata e violenta del potere. Nell'evidente impossibilità di gestire durevolmente il potere, diventava compito prioritario attrezzarsi per una lotta di lungo periodo,per crescere, per resistere, per continuare a sperare. I problemi più urgenti erano da un lato quello dell'organizzazione e dall'altro quello del confronto tra le diverse ispirazioni ideali presenti nel movimento operaio.
Il dissenso tra i seguaci di Marx e quelli di Bakunin, ossia tra «socialisti» e «anarchici», aveva portato la Prima Internazionale alla dissoluzione. Lo stesso dissenso rese difficile la ricostituzione di un'organizzazione internazionale dei lavoratori, anche se l'internazionalismo (cioè la solidarietà di classe tra gli operai di tutti i Paesi) era un principio in teoria accettato da tutti, anarchici e socialisti. Le difficoltà di un'unica organizzazione dei lavoratori erano diventate anche maggiori che nel passato per il fatto che le forme di organizzazione e di lotta del movimento operaio si erano fatte più complesse e differenziate. Le diverse strutture organizzative si potevano ricondurre in sostanza a due: i sindacati, diretti all'azione economica in difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei lavoratori (e in primo luogo in difesa del salario), e i partiti o movimenti politici, volti invece alla propaganda e all'agitazione tra le masse popolari in vista dell'emancipazione finale del proletariato. A questi due tipi di strutture si affiancavano, ma con funzioni del tutto particolari e con una collocazione un po' ambigua, le cooperative (ossia le imprese in cui i padroni erano gli stessi lavoratori) e le società di mutuo soccorso (che si dedicavano all'assistenza ai malati, ai vecchi, ai disoccupati, ecc.).
Sul terreno politico alle vecchie differenze tra gli anarchici (che volevano l'abolizione pura e semplice dello Stato) e i socialisti (che ammettevano la persistenza di una qualche forma di governo anche dopo l'abbattimento dello Stato borghese) si erano aggiunte nuove divisioni in campo socialista tra «rivoluzionari» e «riformisti», ossia tra i fautori di una lotta senza quartiere diretta ad affrettare i tempi dell'inevitabile crollo del capitalismo e i sostenitori di una graduale e pacifica emancipazione delle classi lavoratrici nell'ambito delle istituzioni liberali e della stessa società borghese. Rivoluzionari e riformisti convivevano per lo più negli stessi partiti e se spesso erano i primi ad avere la maggioranza numerica, di fatto erano i secondi ad ottenere i più consistenti successi e ad avere l'egemonia sul movimento operaio nel suo complesso.
In generale i partiti socialisti avevano sconfessato i metodi di lotta violenti, i moti insurrezionali, gli attentati, che erano stati caratteristici di certi movimenti radicali dell'Ottocento, come il mazzinianesimo, e che erano stati ripresi dai movimenti anarchici. Per lotta politica del proletariato, dunque, i partiti socialisti intendevano in sostanza la graduale conquista dei poteri pubblici da parte della classe operaia e si impegnavano pertanto nelle competizioni elettorali allo scopo di rafforzare la rappresentanza socialista nei Parlamenti e nelle amministrazioni locali. I gruppi anarchici, al contrario, respingevano ogni collaborazione con lo Stato e rifiutavano ogni partecipazione alle lotte elettorali e parlamentari: la loro azione si esprimeva essenzialmente in una instancabile opera di propaganda e di agitazione rivoluzionaria, spesso sostenuta da azioni dimostrative, come attentati, colpi di mano, rivolte armate.
Quanto alle organizzazioni sindacali, alcune di loro affiancavano l'azione parlamentare socialista nel tentativo di strappare allo Stato borghese concessioni e riforme a favore della classe operaia. Altre, invece, ispirandosi ai principi anarchici e antistatalisti, si ponevano sul terreno della lotta rivoluzionaria contro lo Stato. Per i socialisti il sindacato doveva essere uno strumento per il miglioramento delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori. Per gli «anarco-sindacalisti» o, come anche erano chiamati, per i «sindacalisti rivoluzionari» il sindacato doveva essere invece lo strumento di una radicale trasformazione sociale. Oltre agli scioperi rivendicativi, gli anarcosindacalisti prevedevano il ricorso allo sciopero generale rivoluzionario, che paralizzando l'intero sistema economico avrebbe dovuto portare al crollo del capitalismo. E appunto nella previsione del crollo finale della società capitalistica i sindacati, in quanto libere associazioni di produttori, dovevano prepararsi, secondo gli anarcosindacalisti, a rimpiazzare sia i padroni sia gli organi dello Stato nella gestione economica e nella direzione politica dei diversi Paesi. Quando nel 1889 si giunse a ricostituire l'Internazionale (la Seconda Internazionale) non era affatto chiaro se la nuova organizzazione avrebbe riunito solo i partiti o solo i sindacati o partiti e sindacati insieme. Chiara era invece la volontà della maggioranza socialista di escludere dall'Internazionale gli anarchici. Gli anarchici erano stati largamente rappresentati al Congresso costitutivo di Parigi nel 1889. La loro espulsione fu però il primo atto compiuto dal secondo Congresso, riunito a Bruxelles nell'agosto del 1891. Ma gli anarchici continuavano a partecipare ai Congressi dell'Internazionale in qualità di delegati delle organizzazioni sindacali, all'interno delle quali erano molto forti. Per escluderli definitivamente i socialisti dovettero operare una netta separazione tra partiti e sindacati. A partire dal 1900 la Seconda Internazionale fu un'organizzazione puramente politica; essa riuniva tutti i partiti socialisti che avevano come obiettivo la conquista del potere politico e come mezzo la lotta parlamentare. A fianco dell'Internazionale socialista si organizzò allora un'Internazionale sindacale, che però si limitò ad una semplice opera di collegamento e di informazione tra le centrali sindacali nazionali, senza affrontare mai i grandi temi della lotta operaia. Gli anarchici, dal canto loro, fallita la possibilità di un'unica Internazionale operaia, tentarono di costituire una propria organizzazione.
La Seconda Internazionale coincise con un periodo di grande affermazione del movimento socialista in Europa. Decine di deputati socialisti vennero eletti nei Parlamenti dei diversi Paesi con i voti di milioni di operai. Cooperative e sindacati socialisti acquistarono un'influenza notevole sulla vita economica dell'Europa. Ma i molti successi furono pagati a caro prezzo. I socialisti avevano affrontato le lotte elettorali e parlamentari con la convinzione di poter conquistare pacificamente e in nome della classe operaia i poteri pubblici; in realtà i socialisti diventarono molto presto prigionieri delle posizioni di potere che avevano conquistato. Il termine «opportunismo», nato sul finire dell'Ottocento, se non fu coniato per loro, fu però sempre più di frequente usato per indicare la condotta dei politici socialisti.

IL MOVIMENTO OPERAIO AMERICANO

Le condizioni di vita degli operai negli Stati Uniti erano altrettanto penose che in Europa, ma lo sviluppo di solide ed estese organizzazioni operaie fu per vari motivi più lento e difficile. Il mito della conquista di sempre nuove frontiere, in un Paese che pareva senza confini, dove il coraggio e l'iniziativa individuale erano le principali condizioni del successo, aveva radicato nella mentalità americana l'idea che tutti sono uguali di fronte alla natura e che ciascuno deve farsi strada con le sue forze. Si respingeva così l'idea di classi sociali contrapposte, e dell'organizzazione dell'una per far prevalere i suoi interessi contro quelli dell'altra. Sembrava che tutti, industriali e operai, dovessero riconoscersi in un unico modello di società, la «democrazia americana» creata col contributo di tutti e continuamente perfezionabile.
Questo complesso di idee servì in particolare a giustificare la repressione contro le organizzazioni operaie. In nome dei valori tradizionali dell'individualismo americano venivano in realtà difesi i più concreti interessi dei capitalisti, i quali da parte loro avevano da tempo negato quelle stesse tradizioni concentrando nelle proprie mani un gigantesco potere economico e politico. Le stesse ragioni possono spiegare perché il movimento operaio americano - a differenza di quello europeo - anche quando acquistò forza ed ampiezza, si sia sempre o quasi sempre proclamato estraneo alla politica e alle ideologie, ossia all'idea di un cambiamento generale della società. Le idee di Marx e di Bakunin non ebbero mai negli Stati Uniti grande influenza, anche se non mancò la presenza anche rilevante di socialisti e di anarchici nei momenti di più grave tensione sociale.
Le più importanti organizzazioni sindacali nacquero dopo la Guerra di secessione. La prima che tentò di unire tutti i lavoratori americani, senza distinzione di sesso, di razza o di mestiere fu fondata nel 1869, col nome di Ordine dei Cavalieri del Lavoro (Knights of Labor). Più importante ancora fu la American Federation of Labor (AFL) che nel 1886 unì a livello nazionale vari sindacati di mestiere preesistenti. Alla fine del secolo l'AFL contava circa mezzo milione di iscritti e alla vigilia della Prima guerra mondiale due milioni e mezzo. Il principale animatore di questa organizzazione fu Samuel Gompers (1850-1924) che per quarant'anni ne fu ininterrottamente il presidente, l'ideologo, il massimo e incontrastato ispiratore.
Nato a Londra ed emigrato negli Stati Uniti nel 1863, Samuel Gompers aveva fatto le sue prime esperienze di organizzatore sindacale nel settore in cui lavorava, quello dei sigarai. Partito da posizioni di ispirazione radicale e socialisteggiante, rafforzate dai suoi contatti con esponenti della Prima Internazionale, elaborò progressivamente una strategia sindacale improntata al più disincantato realismo e tesa a «organizzare gli organizzabili», cioè a difendere gli strati più forti della classe operaia: gli operai specializzati bianchi nati negli USA (non, cioè, gli immigrati) che erano gli unici che, per la loro forza contrattuale sul mercato del lavoro e per la possibilità di pagare alte quote di iscrizione al sindacato, potevano garantire la creazione di una struttura sindacale stabile, fatta di sindacalisti di professione, regolarmente stipendiati.
All'ideologia e alle pratiche del movimento socialista e di quello anarchico Gompers opponeva un sindacalismo, come diceva, «del pane e del burro», orientato esclusivamente alle richieste salariali e d'orario. Strenuo oppositore di ogni organizzazione operaia indipendente sul piano politico, Gompers era un difensore convinto dei valori «americani» dell'etica del lavoro, dell'individualismo, dell'orgoglio professionale. Il suo rifiuto delle utopie, il suo demagogico appello alle esigenze immediate di alcuni strati della classe operaia, le sue indubbie capacità organizzative e il suo trasformismo consentirono all'AFL di soppiantare tutti i precedenti tentativi di organizzazione operaia, e di ritagliarsi uno spazio significativo nella società americana. L'AFL era in grado, ad esempio, di far pressioni sulle clientele politiche e di collocare propri rappresentanti in organismi misti come la National Civic Federation che comprendeva esponenti del potere imprenditoriale e di quello politico, interessati a trovare occasioni di discussione e forme di collaborazione col mondo del lavoro.
Nonostante la sua influenza l'AFL rappresentava però una fetta molto esigua della classe operaia, non più del 5 per cento. Fuori restavano gli immigrati recenti, le donne, i neri e, in genere, i lavoratori semi specializzati e non specializzati. Costoro, con l'aumento delle dimensioni delle imprese e con l'emergere di nuove forme di organizzazione del lavoro, tendevano a crescere di numero e ad assumere un ruolo sempre più importante nel ciclo produttivo, mentre gli specializzati, che costituivano la base dell'AFL, si indebolivano. Questo indebolimento relativo dei suoi organizzati spinse l'AFL a rafforzare ancora di più la sua tendenza al compromesso e alla collaborazione col padronato. Così, ad esempio, durante la Prima guerra mondiale accettò la «pace sociale» e nel dopoguerra si segnalò nella campagna contro le sinistre, contro «i rossi». Contemporaneamente, all'interno del sindacato, nonostante l'opposizione degli strati più coscienti della classe operaia organizzata, specie nei settori di massa come i minatori, si rafforzavano le tendenze burocratiche e verticiste. Questo processo di burocratizzazione aprì la strada, proprio mentre Gompers concludeva la sua carriera, a quella profonda crisi dell'AFL (più di un milione di iscritti persi tra il 1920 e il 1923) che si sarebbe poi compiutamente consumata dopo il Grande Crollo del 1929.

L'INGHILTERRA VITTORIANA

Se gli Stati Uniti e il Giappone erano le nuove vedettes dell'Età dell'imperialismo, l'Inghilterra restava non solo l'impero di gran lunga più grande del mondo, ma anche il Paese che da più tempo e con più titoli si proponeva sul piano politico, su quello economico, e su quello culturale come modello e guida di tutto l'Occidente: l'Atene del nostro tempo. L'Età dell'imperialismo coincise in Inghilterra con la tarda «Età vittoriana», ossia con la seconda parte del lunghissimo regno della regina Vittoria. Per sessantacinque anni, dalla sua assunzione al trono nel 1837, quando aveva appena diciotto anni, alla morte, avvenuta nel 1901, Vittoria simboleggiò in tutto il mondo i valori austeri e i comportamenti un po' gretti (decoro, rispettabilità, sessuofobia, autocompiacimento, ipocrisia) di un'epoca prestigiosa della storia inglese.
In politica interna l'Età vittoriana vide grandi ma prudenti trasformazioni: tutte le necessarie riforme furono affrontate tempestivamente, ma graduandole attentamente in modo da non produrre improvvisi sconvolgimenti nel sistema politico e da salvaguardare la tradizionale egemonia politica e sociale dell'aristocrazia. La base del suffragio elettorale fu allargata due volte (nel 1867 e nel 1885) fino a comprendere circa i due terzi della popolazione maschile. La prima volta l'estensione fu opera del leader conservatore Benjamin Disraeli (1804-1881). Come capo del partito conservatore, di un partito cioè che rappresentava gli interessi dell'aristocrazia, Disraeli era senza dubbio un personaggio singolare: discendente di mercanti ebrei, solo a tredici anni aveva ricevuto il battesimo che gli avrebbe poi permesso di intraprendere la carriera politica. Fallito come speculatore in borsa, aveva invece avuto qualche successo come scrittore di romanzi.
Alla testa di un gruppetto di giovani aristocratici aveva conquistato non senza opposizioni la guida del partito bandendo la dottrina della «democrazia conservatrice» fondata sull'intuizione, rivelatasi sostanzialmente esatta, che la sopravvivenza delle tradizioni inglesi e del ruolo stesso dell'aristocrazia come classe dirigente non avrebbe potuto trovare fondamenta più solide che nell'appoggio delle masse popolari e in particolare della nuova classe operaia. Come capo del Governo, in effetti, Disraeli, oltre ad allargare il suffragio, promosse una legislazione sociale relativamente avanzata e diede riconoscimento alle organizzazioni sindacali. Ma il perno della sua politica era il sogno imperiale, che la regina, a cui Disraeli era legato da un tenero, romantico affetto, condivideva senza riserve. E in questo sogno Disraeli riuscì a coinvolgere gli entusiasmi e le attese di larghissima parte del popolo britannico, sin negli ambienti più umili e diseredati.
Altrettanto singolare era la figura del suo antagonista, il liberale William E. Gladstone (1809-1898). Aveva iniziato la carriera come conservatore. Ardente anglicano e appartenente all'ala più conservatrice della chiesa d'Inghilterra, coltivò sempre la teologia come il suo più vero e personale interesse. Ciò nonostante realizzò in Inghilterra un sistema di istruzione elementare per tutti, aprì le università ai non anglicani, e si schierò con i cattolici irlandesi nella richiesta di una larga autonomia per l'Irlanda, non esitando a scontrarsi per questo con un largo settore del suo partito, che lo abbandonò. Sostenitore dei movimenti di liberazione nazionale, propugnava principi di collaborazione internazionale ed era assai reticente rispetto al crescente impegno coloniale dell'Inghilterra; il che non gli impedì di adottare la «politica delle cannoniere» ordinando per esempio il bombardamento di Alessandria per soffocare una rivolta antinglese e poi procedendo all'occupazione dell'Egitto (1882).
Nelle loro contraddizioni e nella loro complementarità Disraeli e Gladstone sintetizzano bene quella sorta di compromesso tra riforma e tradizione, tra audacie innovative e tenaci conformismi che è uno dei tratti dell'Età vittoriana.
Nella fase che seguì il declino del movimento cartista, cioè dalla fine degli anni Quaranta, l'Inghilterra attraversò un periodo di grande sviluppo economico, di discreta stabilità sociale, di miglioramento generale delle condizioni di vita. Per questo l'età vittoriana è stata di volta in volta ribattezzata come age of equipoise («età dell'equilibrio»), o age of improvement «età del miglioramento», «dello sviluppo». Molti problemi si agitavano però al di sotto del crescente benessere, dell'apparente armonia sociale e della solidità dello Stato. Fu in particolare la questione irlandese ad agitare la vita politica britannica.
Da sempre l'Irlanda cattolica desiderava sottrarsi al dominio della Gran Bretagna. A questo obiettivo si opponeva la minoranza protestante, che prevaleva nel Nord (la regione dell'Ulster), e che era costituita in gran parte da proprietari terrieri. Le pressioni per la separazione si fecero più forti quando, dopo la seconda riforma elettorale, un buon numero di deputati irlandesi fu eletto al Parlamento britannico. Per risolvere il problema, Gladstone, allora capo del Governo, propose nel 1885 la concessione di una forma di autogoverno sotto la sovranità britannica (Home Rule). La proposta suscitò violente polemiche e opposizioni tra gli stessi liberali, una parte dei quali si staccò dal partito per unirsi ai conservatori. Così questi ultimi, guidati da lord Salisbury, ottennero un grande successo nelle elezioni del 1886. Il Governo rimase nelle mani dei conservatori per un intero ventennio, nel corso del quale Lord Salisbury e il suo ministro delle Colonie, Joseph Chamberlain, uno dei liberali che avevano abbandonato Gladstone nel 1886, impressero alla politica estera britannica un orientamento più che mai ispirato alla logica dell'imperialismo.

L'AFFARE DREYFUS

La Terza Repubblica francese, nata dall'umiliante sconfitta inflitta dalla Prussia e dalla vergognosa vittoria sulla Comune parigina, era fatta, come del resto la Seconda, più di monarchici che di repubblicani. Per circa tre decenni e fino all'affare Dreyfus, le istituzioni repubblicane ressero, nonostante i ricorrenti allarmi e i tentativi di colpo di stato, più per la debolezza degli avversari, sempre divisi tra legittimisti, orleanisti e bonapartisti, che per virtù propria. In ogni caso, monarchica o repubblicana che fosse, la maggioranza dei Francesi era «sciovinista», ossia accesamente nazionalista (da Nicolas Chauvin, un soldato del Primo Impero, rozzo e ingenuo patriota, protagonista di una rappresentazione intitolata La coccarda tricolore, messa in scena a Parigi nel 1831) e «revanscista» tenacemente avversa alla Germania, nei confronti della quale aspirava a prendersi prima o poi una piena rivincita (da revanche = «rivincita»).
Il nazionalismo francese, che la perdita dell'Alsazia e della Lorena nella guerra del 1870 aveva esasperato, si nutriva tradizionalmente di fanatismo cattolico e di sentimenti antisemiti; le alte gerarchie militari, poi, non nascondevano la loro avversione per la classe dirigente repubblicana giudicata, nell'ottica revanscista, non abbastanza aggressiva verso la Germania. Nel 1885 il fallimento della banca cattolica Union Générale aveva prodotto un'enorme irritazione negli ambienti cattolici dai quali erano partiti violenti e ripetuti attacchi contro i settori ebraici della finanza francese, accusati di essere responsabili del crac. Nel 1886 il libro di Édouard Drumont La France Juive e gli astiosi articoli de «La Libre parole», un foglio ispirato e sostenuto dai gesuiti, avevano scatenato una violenta campagna antisemita, ispirata, ancora una volta, dai circoli clericali, monarchici e militaristi.
Nel 1894, con l'arresto e la condanna del capitano Alfred Dreyfus, cominciò una vicenda che avrebbe riempito per qualche anno i giornali europei e che costituì un banco di prova perle istituzioni liberali in Francia. In tutta Europa essa contribuì a rendere manifeste le discriminanti morali e ideali sulle quali nei decenni venturi l'opinione pubblica avrebbe continuato a dividersi tra destra e sinistra: autoritarismo o democrazia, nazionalismo o cosmopolitismo, fanatismo o ragionevolezza, culto della forza o umanitarismo, intrigo o garantismo. Va a merito della civiltà liberale europea il fatto che all'origine di un «affare» che riuscì ad appassionare un'enorme quantità di persone e a rimescolare una gran quantità di idee, non ci fosse che la sfortunata vicenda di un uomo qualunque, un uomo, cioè, né autorevole né famoso, e che, non avendo per nulla la vocazione dell'eroe, si limitò a impersonare con dignità la parte della vittima.
Ufficiale di carriera, Alfred Dreyfus (1859-1935) apparteneva a una famiglia ebraica di abbienti imprenditori tessili dell'Alsazia. Per eccitare il fanatismo nazionalista non c'era niente di meglio che rivelare presunti tradimenti ai danni della patria da parte di quanti per una ragione o per l'altra non rispondevano al modello del perfetto patriota. Nell'atmosfera creata da un decennio di campagne antisemite, Dreyfus, ebreo e per giunta con un ramo della famiglia tedesco, presentava i requisiti ideali per essere additato all'esecrazione del pubblico come traditore della patria: sulla base di prove inconsistenti o fabbricate ad arte fu accusato di aver fornito informazioni segrete all'addetto militare dell'ambasciata tedesca di Parigi e fu sbrigativamente condannato da una corte marziale all'ergastolo, da scontarsi all'Isola del Diavolo.
La famiglia di Dreyfus e il nuovo capo del controspionaggio francese erano convinti dell'innocenza del condannato e non mancarono di esibire le prove che giustificavano la loro convinzione. Ma era il concetto stesso di prova che si era vanificato di fronte alle esigenze di certi gruppi di potere. Un altro ufficiale, individuato come probabile responsabile del tradimento, fu scagionato dai giudici che vollero confermare la prima sentenza a carico di Dreyfus. Il caso si riaprì solo grazie alla denuncia del complotto fatta nel gennaio 1898 dal famoso romanziere Émile Zola con la pubblicazione sul giornale radicale «L'Aurore» di un articolo significativamente intitolato J'accuse...! L'opinione pubblica si divise fra innocentisti e colpevolisti e la contrapposizione si trasferì nelle strade, dove avvenivano continui tafferugli tra i seguaci dei due schieramenti. La formazione di un Governo guidato dal radicale Pierre-Marie-Ernest Waldeck-Rousseau (1846-1904) consentì la revisione del processo, che però si concluse ancora una volta, scandalosamente, con un'assurda condanna a 10 anni, tramutata poi in grazia dallo stesso primo ministro (1899). Soltanto nel 1906 Dreyfus poté essere pienamente riabilitato e reintegrato nell'esercito.
Nella lotta tra dreyfusardi e antidreyfusardi gli intellettuali francesi si schierarono in larga maggioranza con i primi: Émile Zola, Anatole France, Marcel Proust, André Gide, Tristan Bernard, Romain Rolland, Jules Renard, Charles Péguy, Georges Sorel, Julien Benda, Léon Blum, Henry-Louis Bergson, Émile Durkheim, Jean Jaurès, ecc. Tutti erano repubblicani e, almeno finché durò l'«affare», sostenitori della democrazia; alcuni di loro erano socialisti o simpatizzanti per il socialismo.
Dall'altra parte non mancarono gli intellettuali, ma si trattava per lo più di letterati di second'ordine o esponenti del mondo accademico legati alle alte gerarchie militari ed ecclesiastiche dall'esaltazione della disciplina, dell'autorità, della forza e soprattutto dal comune odio per il parlamentarismo. Proprio nel campo degli antidreyfusardi è stata elaborata, soprattutto per merito di Maurice Barrès e Charles Maurras, buona parte di quelle teorie che dopo la Prima guerra mondiale sarebbero andate a costituire il patrimonio ideologico del fascismo.
Maurice Barrès (1862-1923), mediocre romanziere ma scrittore politico di notevole vigore, era esponente della Ligue des patriotes, un'associazione che propugnava una riforma dello Stato in senso autoritario, fondata, nella tradizione del bonapartismo, sul plebiscito come tecnica di legittimazione del potere di un unico capo assoluto.

Il parlamentarismo - scriveva Barrès - porta di fatto alla formazione di una oligarchia elettiva che confisca la sovranità della Nazione. Il plebiscito ricostituisce questa sovranità perché le dà una forma di espressione semplice, la sola che le si convenga. D'altra parte il plebiscito fonda l'autorità, perché porta a investire un uomo della volontà nazionale. La Nazione si dà liberamente un capo e, una volta che se l'è dato, gli obbedisce come un esercito.

L'ideologo di maggior spicco dello schieramento antidreyfusardo fu Charles Maurras (1868-1952), fondatore nel 1899 del movimento monarchico e antiparlamentare Action Française, futuro collaboratore di Pétain e teorico del regime di Vichy: letterato di qualche valore, sosteneva, contro l'anarchia e la disgregazione rappresentate dal razionalismo e dalla democrazia, il ritorno non solo alle istituzioni monarchiche, ma anche alla morale e alla disciplina della tradizione cattolica. Naturalmente la sua bestia nera sono sempre stati gli intellettuali liberali, democratici e socialisti.
Per i dreyfusardi il caso Dreyfus era un'elementare questione di giustizia; per molti di loro era anche una questione di principio, ossia di difesa delle istituzioni repubblicane contro il complotto militarista, di difesa dell'uguaglianza contro le passioni antisemite alimentate da una «stampa immonda» (come la definì Zola), di difesa del libero pensiero e della tradizione umanistica contro l'irrazionalismo feroce dei clericali. Ma la sostanza del problema fu espressa nel modo più limpido da Péguy: quando sono i poteri dello Stato a rendersene responsabili, «una sola ingiustizia, un solo crimine, una sola illegalità è sufficiente a rompere, e lo rompe, il patto sociale...».
Al contrario, per gli antidreyfusardi il caso Dreyfus era essenzialmente una questione di solidarietà con lo Stato, e in primo luogo con le alte gerarchie militari, in nome dell'«ordine» e della compattezza della Nazione. Una volta che la condanna era stata emessa, l'innocenza o la colpevolezza di Dreyfus contavano poco, anche perché, a quel punto, i veri «traditori» erano quegli intellettuali che, proprio in un momento in cui sulla patria si addensavano -così almeno dicevano - nubi di guerra, chiedevano una revisione del processo e con ciò osavano mettere sotto accusa la sola istituzione ancora «sana» della Repubblica, l'esercito. Il tema del «tradimento» degli intellettuali faceva così la sua comparsa in grande stile nell'agitazione sciovinista e reazionaria. In seguito la cosa doveva ripetersi più volte, anche in settori politicamente molto diversi o addirittura opposti. Tutti i movimenti e i regimi autoritari del Novecento, non importa se di destra o di sinistra, sono tornati a chiedere l'omertà degli intellettuali agitando il ricatto della «patria in pericolo» e invocando presunte situazioni di emergenza o di «accerchiamento» da parte del nemico. In queste macabre coreografie di città assediata, indispensabili per mobilitare e fanatizzare le masse, la caccia all'intellettuale traditore è stato e resta uno degli elementi più efficaci e «suggestivi».

INTELLETTUALI

Che l'«affare» Dreyfus abbia segnato una svolta nella storia d'Europa basterebbe a dimostrarlo un particolare apparentemente trascurabile: proprio in relazione a questa vicenda e entrato nell'uso corrente il termine «intellettuali», per indicare non solo e non tanto il gruppo delle persone letterate, istruite («i lavoratori della mente» distinti dai «lavoratori del braccio»), quanto il gruppo più ristretto degli uomini di cultura, capaci, in virtù della loro autorevolezza, di influire attivamente sugli orientamenti e gli atteggiamenti del pubblico. Il termine è nato, ed è rimasto, ambiguo. Nel primo dei due significati accennati gli «intellettuali» sono i tecnici della produzione e dell'amministrazione, i «quadri» del potere e della società. Per loro politica e cultura sono in sostanza una professione. Per gli «intellettuali» intesi nel secondo e più rilevante significato, invece, né la politica, ne la cultura possono ridursi a una tecnica o a un mestiere: per loro fare cultura è fare politica, e nessuna politica ha un senso se non fa proprie le ragioni della cultura.
Il precedente immediato del termine «intellettuali» è il termine russo inteligencija (intelligenza) coniato intorno alla metà dell'Ottocento e diffuso quasi subito in tutta Europa per merito principalmente dello scrittore russo Iran Turgenev (18I8-1883). Esso stava a indicare una realtà sociale tipicamente russa, dove il privilegio della cultura era strettamente associato ad un generoso impegno civile. Questa idea dell'impegno civile è rimasta nel termine «intellettuali», o almeno nel suo secondo significato. È evidente che questo impegno civile è in primo luogo un impegno di verità, di denuncia, di autonomia dal potere. Appunto un gesto di denuncia costituì l'atto di nascita della categoria degli intellettuali: il Manifesto degli intellettuali pubblicato il 14 gennaio 1898 dal giornale «L'Autore», che chiedeva la revisione del processo Dreyfus, e che aprì la fase più drammatica dell'«affare».

GARANTISMO, LIBERALISMO, DEMOCRAZIA

«Garantismo» è la posizione di chi propugna e difende ogni possibile condizione (di diritto o di fatto) atta a garantire la più ampia libertà politica e civile. Il termine è entrato nell'uso comune in Italia solo in tempi recenti, e più precisamente nella seconda metà degli anni Settanta, quando con il pretesto dell'emergenza determinata dall'attività di diversi gruppi terroristici di destra e di sinistra è stato avviato, con il varo di una serie di leggi eccezionali (tali cioè da alterare i princìpi generali dell'ordinamento giuridico), un gravissimo processo di degenerazione autoritaria del sistema democratico. «Garantisti» sono stati detti allora, un po' genericamente, tutti gli oppositori di tale degenerazione e il vocabolo è stato usato con valore decisamente spregiativo da quanti (e cioè, purtroppo, da quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento) ne erano invece responsabili. Così, garantismo è diventato nell'accezione volgare una «eccessiva» premura per i diritti e le libertà individuali, uno «sproporzionato» attaccamento alle procedure formali (che fanno perder tempo ai bravi poliziotti e ai giudici sbrigafaccende), un'ipocrita rivendicazione dei diritti della difesa a copertura di un'effettiva solidarietà con i malfattori, e via di questo passo. Proprio per l'uso strumentale e deformante che è stato fatto (e che si continua a fare) del termine «garantismo» è opportuno tentarne una più precisa definizione.
Il garantismo è un'ideologia politica che ha origini molto antiche e radici profonde nella civiltà occidentale. Se per ideologia intendiamo una teoria che enuncia dei valori, che delinea degli obiettivi desiderabili per tutti e che indica i mezzi per realizzare quei valori o per raggiungere quegli obiettivi, il garantismo è l'ideologia di chi ritiene che in una comunità politica debba essere assicurata la più ampia (anzi, una illimitata) libertà di lotta politica. Ogni ideologia, accanto ai valori positivi, individua uno o più valori negativi, ossia dei disvalori, delle cose, cioè, da evitare (se ancora non esistono) o da combattere (se già sono presenti sulla scena politica). Se la libertà politica è il valore positivo dell'ideologia garantista, il suo valore negativo è il prepotere dello Stato: i garantisti guardano al potere di coercizione che è nelle mani dello Stato con sospetto, ne sono infastiditi, lo avvertono (quali che siano le forze politiche al potere) come un pericolo. I garantisti sono nemici giurati di qualsiasi forma di «Stato forte».
Visto che la sua sostanza è appunto la diffidenza per il potere, il garantismo è soprattutto un'ideologia d'opposizione, poco adatta a ispirare una lotta tendente alla conquista del potere. E poiché l'antistatalismo è una componente fondamentale del garantismo, esso appare strettamente affine all'anarchismo. A differenza dell'anarchismo, però, il garantismo non punta alla distruzione dello Stato. Lo Stato, infatti, non è soltanto uno strumento di coercizione e di dominio (una «dittatura» avrebbe detto Marx), ma è anche e soprattutto un meccanismo di formazione di quelle decisioni che debbono valere per tutti (e sulle quali si basano la collaborazione sociale e l'amministrazione della cosa pubblica). Non pare che questa seconda e più importante funzione dello Stato possa essere totalmente scollegata dalla prima. Il problema allora è di ridurre al minimo il potere di coercizione dello Stato salvaguardando l'efficienza dello Stato stesso nell'assunzione e nell'esecuzione delle decisioni di rilevante interesse collettivo. Il garantismo è interessato appunto a progettare norme o tecniche istituzionali e a definire specifiche politiche del diritto tendenti a limitare la «forza» dello Stato e ad esaltarne l'«efficienza» (due termini spesso trattati come sinonimi, ma che il garantismo avverte piuttosto come contrari).
Perché in uno Stato vi sia un'illimitata libertà di lotta politica, occorre che faccia parte integrante della sua costituzione una formale e solenne dichiarazione di diritti. L'elenco dei diritti deve essere quanto più lungo possibile, in ogni caso non possono mancare la libertà personale, l'inviolabilità del domicilio, la libertà di pensiero e di manifestazione del pensiero con ogni mezzo, la libertà di riunione e di associazione, la libertà di organizzazione politica e sindacale, il suffragio universale. Per il garantismo sono princìpi elementari e irrinunciabili quelli che sanciscono l'uguaglianza di tutti gli uomini di fronte alla legge, il carattere strettamente personale della responsabilità penale (in virtù del quale nessuno può essere punito per reati commessi da altri), la non retroattività della legge (nessuno può essere giudicato per atti o comportamenti che al momento in cui sono stati messi in essere non erano esplicitamente indicati dalla legge come reati), il diritto ad essere giudicato da un «giudice naturale» (ossia da un giudice precostituito per legge e dotato dei poteri comuni a tutti gli altri giudici, non istituito per una specifica occasione di giudizio, né dotato di poteri speciali o eccezionali), il diritto alla difesa processuale, e così via. L'elenco dei diritti inviolabili è importante, ma non meno importante è che l'esercizio di questi diritti sia illimitato e soprattutto che questi diritti possano essere fatti valere direttamente davanti ai giudici.
Il fatto di considerare la forza dello Stato come una minaccia per la libertà, ossia come un disvalore, ha numerose e importanti conseguenze nella politica costituzionale. In primo luogo, una costituzione garantista deve prevedere una precisa separazione dei poteri; ciò significa che il potere dello Stato deve essere quanto più possibile distribuito in una molteplicità di organi, in modo che tali organi si limitino e si controllino a vicenda. In secondo luogo, in uno Stato garantista l'estensione del potere statale deve essere ridotta al minimo; ciò comporta ostilità verso qualsiasi norma che attribuisca più potere agli organi dello Stato, e favore verso quelle norme che assoggettano gli organi dello Stato ad obblighi, divieti, controlli, limiti. In terzo luogo in uno Stato garantista deve essere massima l'estensione delle libertà individuali; ciò vuol dire ostilità verso le norme che impongono agli individui obblighi e divieti e favore verso le norme che accordano permessi o facoltà. Nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme esistenti, poi, il criterio generale del garantismo è che si devono interpretare estensivamente tutte le norme che garantiscono diritti, facoltà, libertà agli individui e tutte quelle che, in un modo o nell'altro, limitano il potere degli organi dello Stato; viceversa, si devono interpretare restrittivamente tutte le norme che limitano le libertà individuali e tutte quelle che attribuiscono poteri agli organi statali.
La libertà di lotta politica può essere limitata non soltanto in via di diritto, ma anche in via di fatto. Le condizioni che di ratto limitano la lotta politica sono per esempio quelle di un sistema politico in cui, pur esistendo una pluralità di partiti, non esiste una vera opposizione, in quanto tutti i partiti convergono sulle questioni che contano. In un tale sistema la stampa è formalmente libera, ma di fatto condivide le vedute della coalizione che è al potere; il potere dello Stato è diviso in una molteplicità di organi, ma questi organi non esercitano alcun controllo reciproco, perché sono solidali in una stessa politica; e così via. Il garantismo è nemico di situazioni del genere. Esso guarda con simpatia non già all'unità delle forze politiche e alla pace sociale, che generano omertà, corruzione e conformismo, ma alla divisione, al dissenso, al conflitto (ideologico, politico, di classe), che alimentano e consolidano la vita democratica. Per dirla alla buona i garantisti incarnano quanto c'è di ragionevole nell'immagine del «bastian contrario» e il loro motto potrebbe essere: «divisi è meglio» (nel senso che è meno pericoloso per tutti).
Resta da chiarire quali siano i rapporti del garantismo con la tradizione liberale e con quella democratica. Per quanto riguarda la difesa delle libertà del cittadino e la delimitazione dei poteri dello Stato entro campi esattamente definiti per legge (con la rigorosa esclusione di tutte quelle materie che riguardano problemi di coscienza e che rientrano nella sfera del privato, come le opinioni filosofiche, estetiche o morali, le credenze religiose, i comportamenti sessuali, il genere di consumi, lo stile di lavoro o di vita, ecc.) il garantismo è la sostanza stessa del pensiero liberale. Il liberalismo però non ha mai considerato come irrinunciabili alcuni princìpi quali, ad esempio, il suffragio universale (i liberali, anzi, hanno quasi sempre sostenuto l'opportunità di un suffragio ristretto e, più in generale, di forme di partecipazione popolare alla politica in qualche modo contenute e limitate), né si è mai preoccupato davvero delle condizioni reali (economiche, culturali, ecc.) che assicurano l'effettivo esercizio dei diritti di libertà da parte del cittadino.
Quanto alle correnti democratiche, a cominciare dal pensiero di Rousseau, la loro insistenza sulla volontà generale e sul principio della maggioranza ha messo sovente in secondo piano i diritti delle minoranze e dei singoli cittadini. È bene non dimenticare a questo proposito che il Governo del Terrore durante la Rivoluzione francese era un Governo formalmente democratico sorretto dalla larga maggioranza di un'assemblea che era stata regolarmente e liberamente eletta sulla base del suffragio universale. Nell'Ottocento non pochi regimi autoritari, da quello di Napoleone III a quello di Bismarck, hanno avuto una sanzione «democratica» mediante plebisciti o mediante addomesticatissime assemblee parlamentari, che erano state regolarmente elette a suffragio universale. Lo stesso è successo nel nostro secolo per i regimi fascisti di Mussolini e di Hitler. A partire dalla Prima guerra mondiale, poi, anche i regimi democratici hanno mostrato più volte una pericolosa inclinazione ad assumere un volto autoritario e intollerante e cioè, da una parte, a manipolare l'opinione pubblica e a costruire maggioranze di comodo mediante la corruzione, l'intimidazione, la disinformazione, la propaganda fanatizzante e, dall'altra, a smorzare i conflitti, a reprimere le manifestazioni di dissenso, a discriminare o emarginare «i diversi», e insomma a criminalizzare i comportamenti individuali o collettivi non «omologati», vale a dire non conformi ai gusti, ai princìpi o agli interessi dei gruppi che si spartiscono «democraticamente» il potere.

LA PASSIONE NAZIONALE

Lo Stato borghese era anche e soprattutto Stato nazionale e l'Europa borghese di fine Ottocento si orientò a reinterpretare i rapporti fra gli Stati in base al principio di nazionalità e cioè a tentare la trasposizione sul piano della diplomazia e della geografia politica dei sentimenti e delle tradizioni nazionali. La cosa era tutt'altro che facile, anche perché l'Austria-Ungheria, uno dei due cosiddetti «Imperi Centrali» (l'altro era la Germania), situata proprio nel cuore dell'Europa, era nata e vissuta da oltre due secoli come grande impero multinazionale e multirazziale, dove lingue ed etnie diverse coesistevano in modo relativamente pacifico sugli stessi territori: quando, in seguito alla sconfitta nella Prima guerra mondiale, l'Impero austro-ungarico si sfasciò, il tentativo di ritagliare dal suo territorio una serie di Stati a base omogeneamente nazionale si scontrò con difficoltà insormontabili, che ancora oggi non hanno smesso di travagliare la vita di quelle regioni.
Agli inizi dell'Ottocento nessuno immaginava che un principio del genere potesse esistere in politica. Al congresso di Vienna, che pure si era dato il compito di restaurare tutte le tradizioni pre-rivoluzionarie, le sole totalmente dimenticate (ammesso che fossero esistite da qualche parte prima della Rivoluzione) erano state quelle nazionali. In verità i diplomatici riuniti a Vienna non si erano posti affatto il problema di capire quali fossero le aspirazioni dei popoli di cui decidevano il destino, e non si erano dati alcuna pena di interpellarli. In omaggio al criterio dell'equilibrio, avevano continuato, esattamente come i loro predecessori dell'ancien régime, a ritagliare una regione qua, ad accorparne due là, a calcolare i «compensi» da offrire ad una potenza per «bilanciare» l'ingrandimento consentito ad un'altra e insomma a trattare le terre e i popoli d'Europa come una gran torta da spartire. Eppure le realtà nazionali erano venute alla luce un po' dappertutto in Europa negli anni della Rivoluzione francese e di Napoleone, in parte per effetto proprio della predicazione rivoluzionaria (Napoleone aveva fatto un gran parlare agli Italiani o ai Polacchi di riscatto nazionale), ma in parte anche maggiore per reazione alle pretese egemoniche della Francia e all'ingombrante presenza dei suoi eserciti (si pensi alla resistenza del popolo spagnolo o di quello russo contro Napoleone).
Cinquanta o sessant'anni più tardi un tale atteggiamento da parte dei governi europei non sarebbe stato più possibile: anche i più scettici tra gli uomini politici, i meno sentimentali, i più spregiudicati (come, ad esempio, il cancelliere tedesco Otto von Bismarck) conoscevano ormai il peso dell'opinione pubblica e tutti sapevano che il modo migliore per ottenerne l'appoggio era fare appello, appunto, al sentimento nazionale. Il nazionalismo, che nell'età della Restaurazione era stato il peggiore nemico dei governi e della loro cinica diplomazia, nella seconda metà dell'Ottocento era diventato il loro migliore alleato: strumento efficace di mobilitazione popolare e, nelle relazioni internazionali, temibile arma di intimidazione e di ricatto. Era cominciata così, da parte dei governi, l'organizzazione della propaganda nazionalista attraverso la scuola, le istituzioni culturali, la stampa o i partiti sovvenzionati: i discorsi ufficiali, le manifestazioni di piazza, le cerimonie pubbliche, tutto grondava ormai di retorica nazionale. Che cosa era successo nel frattempo?
Era successo, come ha osservato un grande storico italiano, Federico Chabod (L'idea di Nazione, 1961), che la Nazione era diventata «patria», la patria era diventata «sacra», quelli che avevano avuto la sventura di soffrire o di morire per lei erano diventati «martiri». La politica incentrata sull'idea di Nazione e di patria aveva acquistato un pathos religioso («la Patria», aveva scritto Mazzini, «è una missione», e addirittura: «la patria è la fede nella Patria»), era diventata passione «trascinante e fanatizzante», la più potente molla che ormai ci fosse per spingere gli uomini a uccidere e a farsi uccidere in massa, come due o tre secoli prima lo erano state, appunto, le passioni religiose.
Nonostante l'esplosione delle passioni nazionali, era più che mai difficile dire in che cosa propriamente consistesse il loro oggetto. Di solito la Nazione viene definita come «una stirpe di uomini che hanno la stessa origine, parlano la stessa lingua e sono cittadini dello stesso Stato». Senonché una tale definizione incontra numerose e importanti eccezioni. A proposito degli Stati Uniti, ad esempio, si parla giustamente di una «nazione americana» (come se ne potrebbe negare l'esistenza?). Ma la Nazione americana non è «una stirpe», nel senso che non ha affatto un'origine comune: la sua caratteristica principale è proprio di essere un miscuglio di razze e di gruppi etnici diversi. Analogamente, esiste una Nazione svizzera, la quale però, invece di una, ha ben tre lingue. Quanto all'appartenenza allo stesso Stato, esistono Stati multinazionali (l'Impero austroungarico era uno di questi) così come esistono Nazioni che esprimono più di uno Stato o non ne esprimono nessuno, perché sono soggette al dominio di altri popoli o perché sono disperse come «minoranze nazionali» in Stati diversi.
Quella definizione di Nazione si può integrare in vari modi. Si può constatare ad esempio che gli uomini che formano una Nazione vivono di solito sullo stesso territorio, oppure che hanno interessi e aspirazioni comuni. Si dà il caso però che su uno stesso territorio convivano nazionalità diverse, mentre in tutti i tempi sono esistiti fenomeni di «diaspora», ossia di dispersione in parti diverse del mondo (in greco diasporà vuol dire appunto «dispersione») di un popolo che, ciò nonostante, conserva la propria lingua, la propria cultura e insomma le proprie caratteristiche nazionali: il popolo ebraico ne è un esempio classico. Quanto agli interessi comuni, non è credibile che servi e padroni, proletari e capitalisti, ricchi e poveri, letterati e ignoranti, pur appartenendo alla stessa Nazione, possano avere davvero interessi e aspirazioni comuni.
Secondo lo scrittore e storico francese Ernest Renan (1823-1892) «una Nazione è ciò che vuole essere» ovvero «una Nazione è un plebiscito che si rinnova di giorno in giorno». Non è propriamente una definizione, ma è almeno una bella immagine, che sottolinea come una Nazione sia soprattutto un fatto di volontà. Il che aiuta a capire come nel generale «risveglio» delle nazionalità europee sul finire del secolo scorso comparissero delle «nazionalità» di cui nessuno aveva mai sentito parlare o anche come potessero accadere fenomeni assai curiosi come quello della borghesia triestina, che, pur essendo per lo più di origine slava, tedesca o ebraica, volle scegliere come sua unica e comune patria l'Italia e ne adottò lingua, cultura e passioni nazionali (lasciando che l'appartenenza al mondo slavo restasse prerogativa delle classi inferiori). Il che, tra l'altro, le ha permesso di immaginarsi un'Italia molto migliore di quanto effettivamente era e l'ha indotta a regalare a questa sua patria immaginata una straordinaria schiera di intellettuali e di scrittori: da Scipio Slataper, autore de Il mio Carso, disertore dell'esercito austro-ungarico e volontario in quello italiano (morto in combattimento nel 1915 a trentasette anni) ai fratelli Carlo e Giani Stuparich, anche loro disertori dell'esercito austro-ungarico e volontari in Italia (l'uno morto a Monte Cengio nel 1916, l'altro autore di una delle più belle testimonianze sulla Grande Guerra, La guerra del '15. Dal taccuino di un volontario, 1931), al poeta goriziano Carlo Michaelstaedter, a Italo Svevo (che in realtà si chiamava Ettore Schmietz), uno dei migliori romanzieri italiani del nostro secolo, ecc...
Pare insomma assai difficile definire che cosa sia propriamente una Nazione e da dove nascano le passioni nazionali. Certo, non esiste un sentimento nazionale uguale dappertutto, ma piuttosto esistono tanti tipi di coscienza nazionale quante sono le Nazioni che si sentono tali. In altri termini, ogni Nazione sceglie gli elementi su cui costruire il proprio sentimento nazionale: l'origine comune, la storia, la cultura, la lingua, il territorio, gli ordinamenti politici. Tra i tanti elementi che possono confluire nel sentimento di nazionalità il più ambiguo è l'idea di una origine comune. Questa origine, infatti, può essere intesa in due modi completamente diversi che danno luogo a due diversi (o addirittura opposti) tipi di nazionalismo.
Se si intende in senso naturalistico e biologico, l'origine comune di un popolo diventa la sua comune discendenza e l'idea di Nazione si appiattisce sino a diventare sinonimo di razza: la Nazione diventa allora una pura e semplice «comunità di sangue». Ma la razza, diceva Mazzini, non è affatto un elemento decisivo per l'identità di una Nazione, e in ogni caso, se pure conta qualcosa, ha bisogno di una «conferma dalla tradizione storica, dal lungo sviluppo di una vita collettiva contrassegnato dagli stessi caratteri». Mazzini insomma intendeva l'origine comune di un popolo in senso non biologico, ma culturale, e la identificava con la sua stessa storia.
Tutti i nazionalismi sono competitivi: l'orgoglio nazionale si alimenta sempre di invidie, di rivalità, di aspirazioni irragionevoli al «primato» o al predominio sulle altre Nazioni. Ma il nazionalismo di tipo naturalistico (di cui sono stati espressione nel nostro secolo i vari fascismi) degenera facilmente nel mito barbarico della purezza di sangue e tende, in nome di una presunta superiorità razziale, a disconoscere i diritti delle altre Nazioni all'indipendenza e all'autodeterminazione. Il nazionalismo diventa allora espansionismo e militarismo e la politica di potenza che ne discende si giustifica, ancora e sempre, con argomenti (o piuttosto immagini) di tipo «naturalistico», come «lo spazio vitale» (che non significa niente) o come «il posto al sole» (che è una stupidaggine) o come «i confini naturali» (che non sono mai esistiti). Il nazionalismo di tipo mazziniano, invece, pur invocando innocui primati culturali, puntava a generalizzare il principio di autodeterminazione e a realizzare una politica di collaborazione tra le diverse nazionalità.
Campagna di reclutamento per la Prima guerra mondiale


ETÀ DELL'IMPERIALISMO O BELLE EPOQUE?

Nonostante le ripetute crisi diplomatiche e i contrasti latenti tra le grandi potenze, al termine della guerra franco-prussiana si era aperto per il mondo occidentale un periodo eccezionalmente lungo di pace, destinato a durare sino al 1914. I progressi della tecnica e della scienza avevano reso la vita di tutti i giorni, almeno per le classi agiate, più comoda e ricca di gradevoli novità. La scoperta del telefono tenne dietro a quella del telegrafo; l'illuminazione elettrica cominciò a sostituire quella a gas; sul finire del secolo comparve l'automobile con motore a scoppio mentre faceva le sue prime prove il cinematografo.
Specialmente dagli inizi del Novecento, l'incremento della produzione aveva reso possibile un aumento sensibile dei consumi individuali. Naturalmente, ancora una volta, erano soprattutto le classi agiate ad avvantaggiarsene. Esse però non costituivano più, come in passato, una esigua e solitaria minoranza, perché erano seguite da sempre più numerose classi medie, dotate di un discreto reddito e di buona cultura. I nuovi consumi finirono così per influenzare l'esistenza di gran parte della popolazione. A sfogliare la stampa del tempo si coglie facilmente il clima dell'epoca. Lo spazio che i periodici dedicavano alla moda, alle cronache mondane, alle manifestazioni artistiche attestano il diffondersi dell'abitudine a frequentare i ristoranti, i caffè, i luoghi di ritrovo, gli spettacoli, le mostre. L'eleganza nel vestire, la cultura, le «buone maniere» erano aspirazioni diffuse anche negli ambienti operai o piccoloborghesi. Gli aspetti voluttuari della vita sembravano aver assunto un'importanza del tutto sconosciuta nel passato al grande pubblico.
A quest'epoca di pace e di relativo benessere, rimasta nel ricordo degli Europei come una parentesi felice prima che lo scoppio della Prima guerra mondiale travolgesse l'intera civiltà occidentale in un accesso di distruzioni e di privazioni, è stato dato il nome di Belle époque. In quest'epoca, i grandi centri dell'Occidente erano Londra, Vienna e Parigi, ma solo Parigi, simbolo della Belle époque, poteva vantare il felice ruolo di capitale economica, culturale e mondana: città cosmopolita, era il punto di approdo di ogni sorta di gente interessante, artisti, letterati, avventurieri, uomini di mondo (i viveur come anche venivano chiamati, con un'altra espressione francese) e perfino principi e re: il re del Belgio (il ricchissimo Leopoldo II, che era personalmente proprietario, tra l'altro, dell'intero Stato del Congo, dove i suoi dipendenti commettevano ogni sorta di atrocità a danno degli indigeni) era di casa a Parigi, come del resto Edoardo d'Inghilterra, figlio ed erede della grande regina Vittoria. Certo non mancarono anche in quegli anni notizie di avvenimenti meno rassicuranti, occasioni di preoccupate riflessioni. I giornali più diffusi davano di tanto in tanto resoconti di scioperi, di arresti e condanne di «sovversivi». Gli anarchici, con le loro gesta clamorose, scuotevano talvolta la borghesia dal suo fiducioso ottimismo, e proprio nel primo anno del nuovo secolo, un attentato anarchico provocò la morte del re d'Italia Umberto I. Scandali politici, come l'affare Dreyfus in Francia, scatenavano rivalità e passioni e soprattutto denunciavano i limiti dello Stato liberale borghese. Infine il vertiginoso aumento degli armamenti in tutti i Paesi europei, e soprattutto la gara al riarmo navale tra Inghilterra e Germania erano un chiaro preannuncio di un futuro nient'affatto tranquillo.
Il culto della potenza cominciò a penetrare nel pensiero e nei costumi di vita di larghe masse di persone: si diffuse allora tra la gente la convinzione dell'innata superiorità della razza bianca sulle altre razze e del conseguente diritto delle potenze occidentali a imporre il proprio dominio su tutti i popoli del mondo. A questo dominio si attribuiva anzi il significato di una missione civilizzatrice e di progresso: per quanto paradossale oggi possa sembrare, l'oppressione coloniale era avvertita dai popoli occidentali come una benemerenza nei confronti dei popoli oppressi.
Su questo complesso di miti e di pregiudizi influirono largamente anche certi indirizzi della divulgazione filosofica e del giornalismo politico, che assunsero dalle scienze biologiche, del tutto a sproposito, alcune tesi del darwinismo e, deformandone il significato, cercarono di dimostrare che la «lotta per l'esistenza» e la «sopravvivenza del più forte» (formule in cui venivano riassunti per il grosso pubblico i complicati meccanismi dell'evoluzione biologica) erano leggi necessarie della vita e condizioni di ogni progresso. La propaganda imperialista non faceva gran caso al fatto che nella dottrina evoluzionistica l'espressione «più forte» non significa affatto «più violento», ma semplicemente il «meglio adatto all'ambiente», sicché ad esempio la pacifica ed innocua lepre non risulta per nulla inferiore al feroce leone. Quel che contava era che agli occhi dell'opinione pubblica più sprovveduta quei principi riuscissero a giustificare con una parvenza di scientificità l'uso della forza nei rapporti tra gli uomini, tra le classi sociali e tra le Nazioni.
L'esaltazione per la potenza era anche legata allo sviluppo dell'industria bellica, che era stata protagonista di una spettacolare evoluzione tecnica: la nave corazzata, la mitragliatrice, il sommergibile, la mina subacquea, la potenza distruttrice della moderna artiglieria erano alcuni dei risultati di questo micidiale «progresso». La potenza delle nuove armi, nel clima creato da una competizione senza quartiere, finì per essere considerata come una cosa mirabile e suggestiva, l'espressione stessa della modernità. Nello stesso tempo l'applicazione su larga scala alla guerra delle innovazioni tecniche nel settore delle comunicazioni (dal telegrafo alle ferrovie, dal telefono al motore a scoppio) contribuì a fare della guerra una faccenda, soprattutto, di organizzazione: più che una cavalleresca avventura, o una vicenda dolorosa o una appassionante e sanguinosa scommessa, la guerra stava diventando un'impresa costosa e complicata, da studiare a tavolino fin nei minimi particolari (compito specifico dello Stato Maggiore, il nuovo corpo di alti ufficiali che presiedeva all'ordinamento delle forze armate e alla loro disposizione in guerra), da preparare per tempo e da realizzare al momento opportuno con la massima rapidità e precisione.
Questo nuovo carattere della guerra era cominciato ad affiorare nel corso della Guerra di secessione e poi di quella franco-prussiana del 1870, quando l'esercito tedesco, rapido e potente, aveva suscitato più ammirazione delle molte eroiche ma improvvisate e sfortunate imprese degli ultimi difensori della Francia. E questa stupida ammirazione aveva preso a rivolgersi non solo all'esercito tedesco, ma alla Nazione intera che si era dimostrata capace di tale risultato grazie alla sua efficienza, alla sua organizzazione, alla sua determinazione, alla sua disciplina. Le stesse virtù si scoprirono, con una meraviglia resa ancora maggiore dalle facce e dai nomi esotici, nei soldati e nei generali giapponesi nel corso di quell'orribile anticipazione della Grande Guerra che fu il conflitto russo-giapponese. La volontà di potenza e la mancanza di scrupoli diventarono così il criterio fondamentale in base al quale si giudicavano i meriti dei popoli.
Così, poiché la potenza dello Stato e l'efficienza degli eserciti sembravano richiedere ordine e disciplina, in quella che, nonostante tutto, fu, tra la fine del secolo scorso e l'inizio del nostro, l'età della massima libertà e tolleranza in Europa l'autoritarismo, il conformismo, la repressione del dissenso cominciarono ad apparire a un sempre maggior numero di persone utili o addirittura indispensabili strumenti di governo, buoni in primo luogo per regolare i rapporti delle classi dominanti con le classi subalterne, il cui spirito di ribellione, di resistenza o di renitenza poteva minare, come si diceva, la compattezza della compagine nazionale.

PRO E CONTRO LA GUERRA

La splendida civiltà dell'Europa fin de siècle (e dell'inizio del nostro secolo) covava, neppure troppo nascosti, mostri spaventosi. Uno di questi era il militarismo che, naturale alleato delle aspirazioni imperialistiche della grande industria e della grande finanza e delle passioni nazionali della gente comune, dominava ormai le corti e gli ambienti di governo di quasi tutta Europa. Ma la guerra, che i reazionari amavano per i suoi contenuti di violenza e per gli obblighi di disciplina che inevitabilmente ne derivavano per tutti, cominciava a piacere anche ai loro avversari, a democratici e socialisti, in quanto grande esperienza emotiva, occasione incomparabile di solidarietà, di sacrificio, di «rigenerazione» morale.
In Francia il problema nazionale e l'atteggiamento nei confronti della guerra (di cui dall'inizio del secolo tutti sentivano l'imminenza) divise o piuttosto frantumò lo schieramento dreyfusardo. Il socialista riformista Jean Jaurès (come il suo collaboratore ed allievo, Léon Blum, futuro dirigente del Fronte Popolare francese), era un sostenitore convinto del sistema parlamentare e morì, assassinato, alla vigilia della Grande Guerra, proprio per la sua intransigente difesa del pacifismo. Georges Sorel, invece, sia pure in nome del sindacalismo rivoluzionario, ossia di una posizione radicalmente di sinistra, attaccava il parlamentarismo e la democrazia borghese con argomenti non troppo dissimili da quelli della destra di Barrès e Maurras e dileggiava l'umanitarismo e il pacifismo, di cui si faceva invece difensore Julien Benda. Il sociologo Èmile Durkheim aderì nel 1914 a quella crociata antitedesca dalla quale lo scrittore Romain Rolland (autore di una testimonianza di personale neutralità dal titolo significativo: Au-dessus de la mêlée, «Al di sopra della mischia») si ritrasse stomacato.
Charles Péguy (1873-1914), poeta e pensatore impossibile da inquadrare nelle tradizionali correnti della politica e della cultura è forse la figura più rappresentativa di questa esperienza contraddittoria. Era allievo e ammiratore del filosofo intuizionista Bergson, ma era al tempo stesso amico del razionalista Julien Benda, uno dei più accesi avversari del bergsonismo. Repubblicano e socialista, aveva partecipato con entusiasmo alle battaglie dreyfusarde, ma non aveva mai nascosto l'insofferenza per la retorica e la demagogia degli esponenti ufficiali dei partiti radicali e socialisti. Di convinzioni democratiche diffidava del parlamentarismo e dell'elettoralismo e condivideva le critiche di Sorel alla democrazia borghese. Antimilitarista, era però un patriota, e a partire dal 1905 fu considerato uno dei profeti del nazionalismo francese: in quell'anno, in occasione di uno dei tanti incidenti diplomatici che avevano fatto temere lo scoppio di un conflitto con la Germania, aveva espresso in Notre patrie l'emozione profonda che una tale eventualità aveva suscitato in lui stesso e nel Paese. Da allora si era sempre più allontanato dai suoi ex compagni socialisti senza per altro assumere mai le posizioni reazionarie di Barrès o di Maurras e senza rinnegare mai le antiche convinzioni socialiste. Il «nuovo ordine» sociale a cui aspirava era però «un ordine di dura operosità», fondato cioè sugli ambigui valori dell'onestà personale, del merito, del sacrificio, gli stessi, in definitiva, che gli facevano amare e predicare la guerra.
Nel 1908 Péguy annunciò pubblicamente la sua conversione al cattolicesimo, provocando ancora una volta un grande sconcerto tra i lettori e i collaboratori dei Cahiers de la Quinzaine, la rivista che aveva fondato nel 1900 e che circolava soprattutto negli ambienti dei liberi pensatori. Ma il suo cattolicesimo era assolutamente anticonformista: Péguy insisteva sul valore della carità e denunciava come aberrante l'alleanza della Chiesa con le classi dominanti. Georges Sorel, al quale era legatissimo, non prese mai molto sul serio la sua conversione e questa fu probabilmente una delle ragioni della loro rottura, che si compì nel 1912, in occasione (e anche questo è significativo della sua personalità) di una violenta critica espressa da Sorel a un libro di Julien Benda, che restava un amico e un interlocutore fondamentale di Péguy, anche se ideologicamente era ancor più lontano dalle sue posizioni di quanto non fosse Sorel. La morte di Péguy ha assunto per i sostenitori democratici della guerra un valore emblematico, proprio come, sull'opposto versante, quello dei pacifisti, lo ha avuto la morte di Jaurès. Péguy cadde il 1914 nella battaglia della Marna, nei primi momenti di quella guerra che aveva potentemente contribuito a preparare e a cui aveva entusiasticamente aderito. Il 4 agosto aveva scritto a una sua amica: «parto soldato della Repubblica, per il disarmo generale e per l'ultima delle guerre».